Dietro le facciate rassicuranti delle cooperative sociali e delle ONG, si nasconde sempre più spesso un volto oscuro: quello della criminalità organizzata. Lungi dall’essere solo un sospetto, il fenomeno delle infiltrazioni mafiose nel terzo settore è oggi una realtà documentata da numerose inchieste giudiziarie, ma ancora largamente ignorata dall’opinione pubblica.
Il metodo è semplice quanto efficace: fondare o rilevare cooperative e associazioni con finalità sociali apparenti – assistenza ai disabili, accoglienza migranti, recupero dei tossicodipendenti – per intercettare fondi pubblici e finanziamenti europei, beneficiando di una reputazione insospettabile.
Uno degli strumenti più utilizzati è il meccanismo degli appalti “facili”, dove cooperative riconducibili a contesti mafiosi vincono bandi per la gestione di servizi socio-sanitari, educativi o ambientali. In molti casi, i dipendenti vengono sfruttati o intimiditi, e i beneficiari dell’assistenza diventano una copertura fittizia per il drenaggio di fondi.
La magistratura antimafia ha evidenziato casi in cui le ONG coinvolte nell’accoglienza migranti sono state strumentalizzate per traffici illeciti, con la complicità di enti pubblici distratti o collusi. Le indagini più recenti parlano di un sistema parallelo: un welfare “ombra”, dove il bene comune è solo la facciata dietro cui si celano interessi criminali.
Ciò che rende il fenomeno ancora più allarmante è l’assenza di controlli sistematici e l’impossibilità per i cittadini di distinguere tra solidarietà autentica e business mafioso. Il risultato? Un danno doppio: alla collettività e alla credibilità del mondo del volontariato.
È tempo che il terzo settore, pilastro del modello sociale italiano, si doti di anticorpi reali: trasparenza, tracciabilità dei finanziamenti e verifica degli assetti proprietari. Perché quando la mafia indossa la maschera della solidarietà, è la fiducia civile a essere sotto attacco.